PSICHIATRA
CC
si laurea in medicina e chirurgia nel ’77, nel minimo del tempo
e col massimo dei voti, con una tesi di laurea
in psichiatria sui
messaggi non verbali nella comunicazione di gruppo.
Proprio in quegli anni la scuola di Palo Alto, in California, aveva
scoperto che alcuni
disturbi psichici derivano dalla prolungata esposizione ad
una serie di messaggi non-verbali (gesti,
toni di voce, espressioni
del volto) che esprimono rifiuto e sconferma.
Questi
messaggi sono involontari
e subliminali, perché passano “sub-limen”:
sotto la soglia della coscienza. Né il mittente, né il
destinatario ne hanno consapevolezza. A volte, sono addirittura le
mamme a inviare (senza volerlo, e senza rendersene conto) dei
messaggi di questo genere ai propri figli. Con conseguenze
devastanti sul loro equilibrio mentale.
Questo nuovo approccio al disagio psichico
suggerì a C. un’idea:
chi di spada perisce, di spada guarisce. In altre parole: se
certi messaggi nascosti sono
così potenti da far ammalare, perché non provare a utilizzarli per
ottenere l’effetto opposto: cioè, per guarire?
C
cominciò così a sperimentare la possibilità di mandare
ai propri pazienti dei “messaggi nascosti” capaci di
spingerli a sentirsi bene.
Prendeva
forma la
“terapia subliminale”:
un nuovo tipo di terapia che prevedeva l’elaborazione e
l’invio di messaggi nascosti.
Ma
per poter inviare questi messaggi senza che il p. se ne rendesse
conto, bisognava
nasconderli bene.
C si accorse rapidamente che i nascondigli
migliori per i messaggi subliminali erano le storie. Sceglieva
dunque una storia che non aveva alcun punto di contatto con quel
paziente e coi suoi problemi, e poi
ci inseriva dentro un messaggio terapeutico, costituito da
una frase frammentata secondo una tecnica detta
“disseminazione”.
A rimettere insieme il messaggio “smontato” ci pensava, senza
che il paziente se ne rendesse conto, il suo ED: la parte emozionale
del cervello, (responsabile
delle risposte-automatiche a corto circuito che tanta importanza
hanno nella genesi del sintomo)
che – sempre a livello inconsapevole – elaborava poi il
messaggio ricevuto, dando vita a
un nuovo comportamento.
Contrariamente a quanto accade con i messaggi terapeutici diretti, i
messaggi indiretti (subliminali) che vanno
all’ED hanno il
vantaggio di tagliare fuori la parte razionale del cervello: l’ES.,
in cui risiedono i pregiudizi contro il cambiamento. Con
l’impiego dei messaggi subliminali, l’ES
non si accorge neppure
di aver ricevuto un messaggio, e dunque non può sabotarlo con il
proprio eventuale scetticismo.
Per rendere l’operazione ancor più efficace, spesso C raccontava
la storia alla fine
della seduta, quando il p. era ormai sulla porta: incuriosito e
catturato dal racconto, questi non si rendeva assolutamente conto che
il momento più importante dell’intera seduta era proprio
quello.
Per
nascondere al meglio i
suoi messaggi terapeutici C sceglieva le storie col più alto indice
di gradimento. Quelle capaci
di assorbire tutta l’attenzione dei pazienti, e di tenere
impegnato il loro ES.
Le più gradite si
rivelarono le storie straordinarie (nel senso di
“extra-ordinarie”: fuori della norma) e imprevedibili, spesso
con un finale a sorpresa.
Quando avevano a che fare con lo sport, il sesso, il sangue, la
salute, ecc., il loro appeal diventava ancora più grande.
Scoprì
anche che gli argomenti più graditi cominciavano
tutti con la lettera “esse”, anche se questo non portò
ad alcun risultato apprezzabile.
La
scoperta dell'inflessibilità in tutti i suoi pazienti,invece
lo aiutò a perfezionare la terapia subliminale.
Non tutti i soggetti in-flessibili (nel senso di rigidi: poco
duttili) sono pazienti psichiatrici, ma tutti i pazienti di uno
psichiatra sono “in-flessibili”.
La scarsissima elasticità
(mentale) è infatti
un tratto assolutamente tipico di chi si rivolge allo psichiatra.
I
soggetti “inflessibili” considerano la propria visione di se
stessi e del mondo non
come una semplice “mappa”,
e dunque solo una
rappresentazione della realtà,
ma come una verità
immutabile, e dunque intoccabile.
Riassumibile in due semplici frasi: “Io sono fatto così”, e
“il mondo è fatto così”.
Partendo da una simile premessa, non è ovviamente possibile
cambiare niente: né le cose, né se stessi. Quindi, se si sta male,
non si può far altro che soffrire.
Ma i comportamenti scaturiscono dalle mappe: poiché sono
convinto che le cose stanno in maniera X (mappa), faccio Y
(comportamento). A questo punto C ebbe un’idea: perché non
provare una terapia capace di intaccare direttamente la mappa, la
madre di tutti i comportamenti?
C sperava che questo intervento
terapeutico nuovo, che andava dritto alla radice del problema,
potesse aiutare i pazienti
inflessibili, che si
fabbricano il malessere con le proprie stesse mappe. L’
intervento consisteva nell’inviare al paziente messaggi nascosti
che mettessero in dubbio i
suoi radicati sistemi di credenza.Attaccare le mappe
significava andare a
monte del comportamento che fa star male il paziente,
I comportamenti
derivano infatti proprio dalle nostre mappe: cioè dalle convinzioni
che abbiamo, e che ci obbligano a comportarci di conseguenza. Se
- ad esempio - pensiamo che il mondo è cattivo,
difficilmente guarderemo alla gente in modo fiducioso e amichevole.
Nasceva un intervento più
complesso e articolato: la
terapia subliminale
“strategica”.
Utilizzando le sue già
collaudate tecniche subliminali (i messaggi nascosti),
C istillava
nei suoi pazienti il dubbio che
la mappa che generava i comportamenti non desiderati
non fosse immutabile. Cioè, che la si potesse
modificare.
Questo
bastava perché si innescasse, quasi in automatico, la ricerca di
nuove possibili mappe.
La
mappa unica (in quanto
vera: la verità, si sa, è una) lasciava così il posto ad infinite
possibili mappe. Ogni
nuova mappa era in genere più funzionale della vecchia: ma -
quel che più conta - non era più considerata immodificabile.
Era quindi, pronta ad
essere cambiata, se ritenuta non vantaggiosa, tante volte quante ne
servivano a produrre benessere.
Da quel momento – era il 1979 - C decise di utilizzare questo
nuovo approccio terapeutico con
tutti: e i risultati gli diedero ragione. Agendo sulle cause
(le mappe) e non sugli effetti (i comportamenti), la terapia
subliminale strategica risultava infatti
più efficace in ogni circostanza.
Alcuni
pazienti però non riuscivano a
fare tutto il percorso. In loro, (contrariamente a quanto
accadeva per gli altri), il
messaggio nascosto che metteva in dubbio l’effettiva realtà della
propria mappa non
riusciva a provocare quell’effetto-cascata che doveva condurli a
una mappa nuova.
Le
loro mappe (e quindi, anche i loro
atteggiamenti e comportamenti)
si erano ormai consolidati in una certa direzione, e di là
non si smuovevano.
C
capì che con loro non ci volevano parole, ma fatti.Questi
pazienti rigidi, che non traevano alcun giovamento dalla
terapia subliminale strategica, erano in effetti delle persone
concrete, poco portate alla psicologizzazione: per loro,
quello che conta nella vita sono i fatti.
Non
che abbiano torto: i responsabili delle nostre mappe sono proprio i
fatti, “trattati” con un procedimento psicologico che si chiama
generalizzazione.
Ciascuno
di noi ricava dalle
proprie esperienze delle “leggi” generali sul funzionamento del
mondo, e teorizza che le cose stanno in questo o in quel modo.
Non
esiste un numero di esperienze abbastanza alto da permettere una
“generalizzazione” adeguata: è buona norma, comunque, cercare
di accumulare una certa
quantità di dati, prima di tirare le conclusioni. Ma è soprattutto
necessario tener bene in mente che generalizzare vuol dire sempre e
comunque semplificare. Se riusciamo
a ricordarcelo, siamo disponibili
a sostituire le “leggi” che ci siamo fatti con altre leggi
(altrettanto precarie, ovviamente), nel caso in cui
le successive esperienze che facciamo le dovessero mettere in
crisi.
Ebbene,
gli “inflessibili” di cui stiamo parlando
si contraddistinguevano per essersi accontentati assai
spesso, nel tracciare la propria mappa,
di un numero di fatti (cioè di esperienze)
piuttosto scarso.
E
specialmente per aver generalizzato, da questi pochi dati,
delle convinzioni (delle mappe) inossidabili, resistenti nel tempo.
D’accordo, si disse C: erano
fatti, e non parole, quelli
che volevano?Li avrebbero avuti.
Dal momento che il loro approccio alla realtà non risultava
modificabile (a provarci, C ci aveva provato), C decise che ne avrebbe
fatto un punto di forza. Avrebbe “ricalcato” (cioè cavalcato)
il loro stile. Per farli
cambiare avrebbe utilizzato proprio questa loro grande fiducia nei
fatti.
Visto
che le loro mappe
dipendevano da fatti - secondo loro -
“oggettivamente negativi”, per cambiarle radicalmente gli
sarebbero stati forniti dei fatti ”oggettivamente positivi”.
Ne
sarebbero bastati pochi: a farli diventare generatori di
una nuova mappa ci avrebbero pensato loro stessi, grazie
all’accertata tendenza a generalizzare a partenza da pochi dati
(di fatto).
Ma
come può uno psichiatra far accadere degli eventi positivi che
cambino nei fatti la vita del paziente?
A tutta prima, la cosa pare impossibile. Ma C non soltanto
sapeva il fatto suo (nel
senso che era un buon professionista): sapeva pure
i fatti loro. Conosceva i particolari più minuti della vita
dei suoi pazienti, che glieli raccontavano
in terapia.
Perciò
poteva interferire con la loro realtà spicciola, quella di tutti i
giorni. Se fosse riuscito a cambiarla in positivo in due o tre
occasioni significative, avrebbe
potuto generare una reazione a
catena: la “generalizzazione negativa”
tipica di questi pazienti si sarebbe trasformata in
“generalizzazione positiva”. I pochi “successi”
(artificialmente indotti da C) avrebbero
prodotto una nuova mappa.
Stabile,
per di più: C – che
conosceva perfettamente il p. -, sapeva infatti con precisione quali
mappe i “fatti nuovi” (spontanei, secondo i pazienti, ma in
realtà progettati a tavolino da C e dalla sua equipe )
avrebbero
prodotto, e quindi faceva
“succedere” proprio quelli.
Dalla
nuova mappa ottenuta per generalizzazione sarebbero scaturiti dei
nuovi comportamenti: proprio quelli
che il paziente diceva
di volere, e che nonostante tutti i suoi sforzi non riusciva ad
ottenere.
Al
termine del processo, la mappa del paziente – e di conseguenza i
suoi comportamenti - sarebbero
cambiati.
Se
non si fosse raggiunto il risultato previsto, ci si poteva
tranquillamente riprovare: il paziente avrebbe continuato ad essere
all’oscuro di tutto.
Quando
tutto andava bene, il circolo vizioso invertiva il suo senso di
marcia, diventando un circolo virtuoso: sull’onda dei nuovi eventi
positivi (che il paziente non sospettava essere stati provocati da
un intervento esterno), il soggetto modificava le sue opinioni su di
sé: e quindi generava da sé dei nuovi comportamenti,
senza bisogno dell’equipe di C.
Questo
tipo di terapia (subliminale quanto la strategica, ma ancor più
nascosta, in quanto avveniva in un ambiente ritenuto fuori del
controllo dello psichiatra: il mondo),
C la definì “terapia
stradegica”: perché avveniva per la strada, ad opera di
collaboratori insospettabili, “stradegicamente” dislocati sul
territorio.
La
terapia stradegica, messa in atto quando quella strategica
aveva avuto effetti modesti, funzionava benissimo.
Ma
non funzionava sempre.
Rimaneva
ancora una piccola sacca di resistenza: una piccola quota di
pazienti che
non riusciva a trarre
giovamento nemmeno da questo nuovo tipo di intervento che
combinava insieme la terapia subliminale strategica e quella
stradegica.
Fu
grazie alla necessità di occuparsi di
loro che C finì
per occuparsi, in seguito, di televisione, realizzando una serie di
filmati che avrebbero contribuito in un primo momento ad aumentare
la flessibilità delle
persone, e poi, in maniera inaspettata, a distanza di anni, a
(di)mostrare come nascono, crescono e si diffondono le leggende
metropolitane.
Fino
a diventare il primo legendmaker (fabbricatore di leggende
metropolitane) e successivamente il
primo legendbuster (demolitore di leggende) della storia.
Ma
per arrivare a questo ci sarebbero voluti
molti anni ancora.
Lavorando
con questi pazienti particolari , C si era accorto che fornirgli un numero
maggiore di fatti nuovi “positivi” non solo era inutile, ma era
addirittura controproducente.
In
effetti, erano stati proprio i fatti nuovi (“stradegicamente”
provocati dall’equipe di C), e
la loro conseguente generalizzazione,
a turbarli profondamente. Era come se si fossero detti:
“OK, mi ero fatto delle idee sbagliate su me stesso. Ma visto che
ho sbagliato una volta nel valutare me e il mondo, chi mi garantisce
che non sbaglierò
ancora?”
Si
erano insomma spaventati della scoperta che di mappa non ce n’è
una sola: che ciascuno se ne può costruire tante, a seconda del
momento, e del bisogno.
Sapere
di essere imprevedibili anche per se
stessi li faceva star male.
Essere
coerenti non è un optional. Per nessuno.
La
coerenza sarà forse un tantino monotona, ma è così comoda
(conveniente)! Mette al riparo dai cambiamenti, e dalle brutte
sorprese: guardando a ciò che sono stato ieri, io – essendo una
persona coerente – posso sapere
cosa sono oggi, e soprattutto come sarò (e specialmente cosa farò)
domani.
Questi
(pochi, per fortuna) irriducibili vennero chiamati da C “iper-coerenti”.
Il fatto che la loro vita non seguisse una linea retta: che il loro
presente non fosse “coerente”
col passato li faceva soffrire terribilmente.
Per
il loro grande bisogno di sicurezze e di punti di riferimento,
l’idea di un mondo non orientato dalla stella polare della
coerenza li poneva in una situazione
difficile da accettare.
Insomma:
rinunciando alle vecchie mappe, e tracciandone
di nuove,
questi pazienti avevano
la spiacevole sensazione di smarrire la rotta, e di perdere la
faccia. Davanti agli altri, ma soprattutto davanti a
se stessi. (Accettare) la provvisorietà e la non definitività
delle mappe significava infatti
necessariamente ammettere
di essersi sbagliati a lungo, e pesantemente.
Sul mondo, ed è già grave: ma anche su se stessi. E questo era per
loro francamente
inaccettabile.
Rinunciare
(o quanto meno depotenziare notevolmente) la coerenza è
particolarmente doloroso (e qualche volta impossibile) per i rigidi,
tenacemente aggrappati ad immutabili certezze: ma non si può
dire che sia indolore anche per i non-rigidi, che sono poi la
grandissima maggioranza della popolazione.
Diciamola
tutta: riconoscere di aver preso un abbaglio, di aver sbagliato le
proprie valutazioni (specialmente in ambiti importanti come
l’opinione di sé, o le proprie idee sul mondo) non fa
piacere a nessuno.
Il bisogno di tenere legati in
un insieme coerente passato, presente e futuro: di
mettere “in linea” quel che ci succede oggi con quanto ci
è successo ieri, così da poter contare su dei criteri-guida per il
futuro, ce l’abbiamo tutti,
senza eccezioni. E’ un modo per sentirci più sicuri: pensare che
tutti gli avvenimenti seguano un filo logico ci serve infatti per
poter – almeno in parte – prevedere quello che avverrà domani.
Ma la differenza che passa tra noi e un ipercoerente sta tutta qui:
se diventa necessario rinunciare per un tratto alla nostra coerenza,
ammettendo di aver agito in una maniera che non sappiamo
compiutamente spiegarci, riusciamo a farlo, pur se non ci fa
piacere.
Il “sempre coerente” invece non ci riesce. Pur di dare un senso
logico a una stupidaggine che è magari stato indotto a fare, si
costringe a dirne (e a farne) delle altre. E
finisce (a volte proprio per questo)
dallo psichiatra.
Ma come intervenire a favore dei “ sempre coerenti”, e
delle tante (troppe!) persone per le quali la coerenza è
comunque un valore da salvaguardare?
Questa volta non sarebbe stato necessario nè l’invio di messaggi
nascosti nè interventi fuori ordinanza (cioè fuori del suo
studio): in aggiunta alla già somministrata terapia subliminale, C
fece vedere a questi
pazienti un
filmato che li metteva
in guardia – in
maniera abbastanza chiara, manifesta,
non occulta - contro i rischi della “coerenza a tutto
campo”. E, per contro, sottolineava i vantaggi della flessibilità.
Per
capirci: alla terapia subliminale strategica – fatta di messaggi
nascosti diretti a cambiare le mappe – C affiancava la
“somministrazione” di filmati.
Ai
messaggi destinati a raggiungere il paziente passando per le
orecchie, C ne aveva aggiunti degli altri (presenti nel
filmato) che dovevano andare a segno
attraverso gli occhi.
Il filmato mostrava le due situazioni che più ci spaventano: essere
fregati, e renderci ridicoli. Se poi
pensiamo che le
due cose ci possano accadere insieme: che cioè ci possono fare
fessi ridendoci dietro, sudiamo freddo.
Ebbene,
proprio questo veniva fatto vedere ai p. nel filmato preparato da C:
degli individui che, pur
di mostrarsi coerenti con quanto erano stati abilmente
indotti a dire o a fare, s infilavano in un esilarante
(per gli spettatori, non per lui) cul de sac, dal quale non
erano più in grado di tirarsi fuori.
Dopo
avervi assistito, molti pazienti
migliorarono. La cosa, in fondo, non era poi così sorprendente: a
colpire C fu invece il vantaggio che dalla visione di questo filmato
ricavarono inaspettatamente alcuni
tecnici che ci avevano
lavorato in fase di allestimento: operatori, fonici, montatori.
Abituati a filmare e montare le immagini più disparate
senza farsi coinvolgere troppo, molti di loro
confessarono – con un certo stupore - di esserne rimasti
colpiti. Da quel momento, avevano cominciato a domandarsi se,
quando cercavano di essere coerenti, non diventassero per caso un
po’ ridicoli.
E
oltretutto, prevedibili: così da rischiare di rimanere vittima di
truffatori esperti nel settore.
Il
filmato mostrava chiaramente come
l’eccessiva rigidità di certi personaggi, decisi a
mostrarsi a tutti i costi ragionevoli e (difendere sempre e comunque
il proprio operato, anche quando si era trattato di un comportamento
assolutamente poco razionale che erano stati indotti a tenere di
fronte alla telecamera), poteva renderle
facile preda di profittatori senza scrupoli (in questo caso,
di C e dei suoi collaboratori…)
Vedere
(e rendersi conto di) tutto questo aveva dato agli osservatori la
possibilità di ipotizzare una reazione
differente rispetto a quella dei
protagonisti del filmato: e questa nuova, maggiore
flessibilità aveva dato
loro un senso di libertà decisionale che fino a quel momento
non avevano mai provato.Il vantaggio concreto che avevano procurato
a delle persone normali (per intenderci, a dei non-inflessibili),
suggerì a C l’idea che
questi filmati potessero
svolgere una importante funzione di prevenzione.
Avrebbero
infatti mostrato alla gente che, quando un comportamento è
inadeguato, lo si può sostituire con un altro più adatto. E che
si può tornare indietro, non solo senza perderne in immagine
e in dignità, ma anzi accorgendosi che
spesso è la strada migliore
da prendere.
Quest’intervento
preventivo sarebbe insomma andato a beneficio non tanto
dei pazienti (che comunque, per imparare a fronteggiare l’ipercoerenza,
avevano a disposizione
il proprio terapeuta),
quanto della gente comune, che invece se la deve cavare da sola:
vedendo quali fesserie
si costringeva a dire e a fare chi voleva mostrarsi per forza logico
e coerente, forse alcuni avrebbe scelto di comportarsi in modo
diverso.
C’erano
insomma delle probabilità che questo
filmato potesse avere un effetto preventivo indiretto sulla gente.
Si
poteva passare
senz’altro alla verifica. L’operazione non presentava rischi:
effetti collaterali indesiderati non ce n’erano. Nella peggiore
delle ipotesi, il messaggio non sarebbe stato “preso” dallo
spettatore: ma in nessun caso gli avrebbe fatto male. Un po’ come
accade per tutti i messaggi subliminali, d’altra parte.
Ma
come arrivare al grosso pubblico? Ci sarebbe voluta
la televisione. E nemmeno una piccola, privata: per
effettuare una vera prevenzione di massa ci voleva quella grande,
quella pubblica: la RAI
(era il 1981, e il suo monopolio appariva inossidabile: Mediaset era
di là da venire).
Con
la RAI C era in rapporto già da qualche anno: all’inizio era
stato chiamato a
partecipare come ospite in trasmissioni
legate alla sua professione di psichiatra e di comunicatore,
e in seguito aveva anche ricevuto, e accettato, la singolare
proposta di divenire autore e regista di uno dei più
importanti programmi radiofonici di attualità, in onda su
Radiouno due volte alla settimana.
Non
gli fu difficile perciò far vedere ai dirigenti RAI il
filmato che aveva girato, e che ormai girava – con grande
consenso - per convegni e seminari. Oltre che per gli studi di
colleghi che lo avevano acquistato per farlo vedere ai loro
pazienti.
Il
filmato che portò in RAI come “numero
zero” di un’eventuale serie era insomma
già testato: oltre
che utile, chi lo aveva visto lo
aveva trovato divertente come un programma di varietà.I dirigenti
della RAI a cui fu fatto vedere lo trovarono molto particolare, e
divertente: da notare che la sua possibile valenza preventiva (e in
qualche modo terapeutica) non fu assolutamente sottolineata da C.
Tutto
questo era in linea con i suoi precedenti
interventi: così come
subliminali erano state la terapia strategica e quella stradegica,
altrettanto nascosti sarebbero stati questi tentativi di prevenzione
tramite video.
Il
filmato fu cioè presentato come
proposta di un programma di varietà, divertente ed eversivo: la
faccia opposta (ma altrettanto godibile) della celebre Candid
Camera, dal momento che in questo caso la telecamera era del tutto
visibile, invece che nascosta.
Fu
cosi che C fu divenne autore e regista per RAIDUE, di una serie di
filmati che andarono in onda tra la primavera e l’estate del 1981.
Quale
effetto abbia avuto quest’operazione
in termini di prevenzione dei danni da coerenza, è difficile
dirlo: un campione testato da C prima e dopo la visione dei filmati
mostrò peraltro un certo aumento della flessibilità
nell’affrontare i problemi nel 62% dei casi.
All’esame
di questi filmati che mostravano i pericoli della coerenza ad
oltranza, e – per contro – i vantaggi della flessibilità, C
dedicò la sua tesi di
specializzazione in Psichiatria, discussa nel luglio dell’81
presso la cattedra di Psichiatria dell’Università di Napoli, e
premiata col massimo dei voti e la lode.
Da
allora ha continuato a sperimentare tecniche subliminali che
rendessero più facile non solo la guarigione ma anche la crescita
personale.
Ha
ormai sostituito quasi completamente l'attività di psicoterapeuta
con quella di trainer. Attualmente
tiene corsi di formazione,informazione e disinformazione presso i
più importanti istituti di comunicazione del mondo.
|